Il made in Italy e i 60 miliardi persi in prodotti contraffatti

Il made in Italy e i 60 miliardi persi in prodotti contraffatti

Posted on 3 Maggio 2016 by in Marketing with Commenti disabilitati su Il made in Italy e i 60 miliardi persi in prodotti contraffatti

“Il marchio contro le false imitazioni del Made in Italy”, recita un baldanzoso titolo di RaiNews. “Contro le false imitazioni” è un magnifico lapsus: dice una cosa priva di senso, e che tuttavia risulta stranamente pertinente al fatto a cui si riferisce.

Ecco di che si tratta: negli ultimi mesi, il frenetico attivismo di svariate pubbliche istituzioni ha già prodotto un paio di notevoli stravaganze turistico-promozionali. Sto parlando del discusso sito Verybello e del dissennato logo turistico Rome&you. Ma prima di entrare nel merito della nuova, recentissima stravaganza promozionale a cui si riferisce RaiNews devo segnalarvi alcuni elementi di contesto importanti, e tali da rendere questa e le precedenti stravaganze meritevoli di essere commentate.

Il turismo è strategico per la nostra economia: secondo il rapporto del World travel and tourism council 2014 produce, direttamente, indirettamente o in termini di indotto, oltre il 10 per cento del pil nazionale e riguarda più di due milioni e mezzo di posti di lavoro.

In Francia e Gran Bretagna, però, il contributo del turismo in termini di pil e occupazione risulta già oggi maggiore. E le previsioni non fanno ben sperare: abbiamo una misera previsione di crescita del contributo del 2 per cento contro un 4,2 per cento mondiale. Ecco perché bisogna darsi da fare, e in fretta.

Un altro pezzo di economia nazionale che merita un occhio di riguardo, e non solo per via di Expo, è l’industria agroalimentare, le cui esportazioni crescono a velocità doppia rispetto al totale delle esportazioni italiane: siamo a 34,3 miliardi di euro nel 2014. Esportiamo vino e dolci, e poi formaggi, pasta, passata di pomodoro, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Ma anche l’estremo oriente e il Brasile sono in crescita e oggi oltre 1,2 miliardi di persone comprano almeno un prodotto agroalimentare italiano all’anno. Oltre la metà (750 milioni) compra spesso prodotti italiani.

La filiera agroalimentare vale l’8,7 per cento del nostro pil e riguarda 3,3 milioni di posti di lavoro: il 13,2 per cento degli occupati (fonte: Nomisma per Adm). Oggi le esportazioni valgono un po’ più di un quinto (20,5 per cento) della nostra intera produzione. Ma Germania (33 per cento), Francia (26 per cento) e Spagna (22 per cento) fanno meglio, anche se noi già guadagniamo di più perché i prodotti che esportiamo sono tipici, eccellenti e più cari. Proprio per questo sono anche più esposti alle imitazioni: da una parte c’è l’italian sounding (prodotti fatti altrove che si fingono italiani), dall’altra le contraffazioni vere e proprie. Uno speciale di MarkUp riporta questi, insieme a molti altri dati:

Quanto vale la “contraffazione” delle indicazioni geografiche italiane(stime in miliardi di euro):

Tipo di merce Unione europea Asia e Oceania Nord e Centro America Sudamerica Totale
Contraffatta 1 1 3 1 6
Italian sounding 21 4 24 5 54
Totale 22 5 27 6 60

Notate bene: i prodotti italian sounding valgono 60 miliardi di euro. È il doppio del valore dei prodotti italiani “veri” che esportiamo. Il fenomeno si è triplicato negli ultimi dieci anni. Negli Stati Uniti solo un prodotto su otto, tra quelli venduti come italiani, è italiano davvero.

Lo racconta Legambiente: ci sono il Parma salami del Messico, il Parmesao del Brasile, il Parmesan venduto in tutto il mondo, il Regianito argentino, il Parmesano diffuso ovunque in Sudamerica, il Parmeson cinese. Un “parmesan perfect italiano” è fatto in Australia. Ci sono anche un gorgonzola argentino, un barbera romeno e un pandoro tedesco. Questa roba, lo scrive il Sole 24Ore, costa all’Italia 300mila posti di lavoro. Dunque, anche in questo campo bisogna darsi da fare, in fretta e bene: ci vuole un piano.

Il piano, in realtà, ci sarebbe. È l’ampio, ambizioso Piano per la promozione straordinaria del made in Italy varato lo scorso febbraio: sono previsti 260 milioni di euro d’investimento che, considerando la posta in gioco e la dimensione mondiale, restano comunque pochi, ma con i tempi che corrono sono assai meglio di niente. Il piano riguarda moda, cibo e bevande, meccanica.

E vabbè, in realtà sarebbe tutto collegato: l’immagine dell’Italia all’estero, il turismo estero in Italia, l’esportazione agroalimentare, la promozione di moda, design e imprese culturali e creative, l’attrazione degli investimenti. E tutto andrebbe messo a sistema, realizzando sinergie ed economie di scala, perché tutto, in fin dei conti, rimanda al prestigio, al valore percepito e alla desiderabilità internazionale dell’Italia e di ciò che è italiano, alla nostra identità. Ma già un intervento parziale ci riempie di aspettative, no? E poi, dai, il bel video presentato a Davos farebbe sperare in interventi efficaci e di qualità.

Ed eccoci, finalmente, al punto. Secondo il documento di presentazione del Piano per la promozione straordinaria (pagina 18) una campagna contro l’italian soundingavrebbe già dovuto essere lanciata ad aprile in Canada, dove si vendono 3,6 miliardi di dollari di parmigiano, provolone e prosciutto contraffatti.

Ma oggi in rete trovo solo questa notizia. In compenso, a fine maggio 2015 viene presentato il marchio (anzi, come dicono i documenti ufficiali, il “segno distintivo unico dell’agroalimentare italiano”) che potrebbe identificare nel mondo i nostri prodotti originali. Dovrebbe essere, se adeguatamente applicato e pubblicizzato, l’arma potente, efficace e definitiva contro le vere (e non le false!) imitazioni. Eccolo qui.

Ma… ma perché c’è un blabla generico come “the extraordinary italian taste”, che ricorda altri generici blabla come Magic Italy ed è talmente generico da sembrare a sua volta italian sounding? E perché mancano tutte, ma proprio tutte le parole-chiave: originale, vero, autentico, inimitabile, garantito, fatto in Italia? Ce ne fosse almeno una, accidenti.

E poi “gusto”, parlando di cibo e vino, è una parola ambigua perché fa riferimento alla percezione soggettiva e non a qualità oggettive: “gusto italiano” è proprio quello che hanno i prodotti italian sounding.

E perché rinunciare non solo a scrivere parole qualificanti, che dicono quel che devono dire, ma anche a scriverle in italiano (lo ripeto ancora una volta: è la quarta lingua più studiata al mondo)? Tra l’altro i termini “originale, autentico, garantito italiano” risultano facilmente comprensibili (per controllare bastano due clic con Google translator) non solo a tutte le persone che parlano inglese e che dunque capiscono la scritta attuale, ma anche a quelle che parlano francese, spagnolo, tedesco, romeno, lettone e lituano, portoghese…

E ancora: i prodotti italian sounding usano, storpiandole, una quantità di parole italiane (su una confezione romena di Prima Pasta le penne diventano “pene”). Perché mai i prodotti italiani “veri” dovrebbero risultare più credibili vantando la loro italianità in inglese?

E poi come la mettiamo con i siti italiantaste.it e italiantaste.net, che già esistono e si troveranno con un bel po’ di pubblicità ministeriale gratuita? Per inciso: mentre scrivo, italiantaste.com è in vendita per “soli” 20mila euro.

Infine: che cosa mai sta distinguendo questo marchio distintivo, se si limita ad affermare che il gusto italiano è straordinario (e su questo sono d’accordo anche gli imitatori che, infatti, imitano e replicano), ma non prova neanche a discriminare tra prodotto falso e prodotto autentico e originale, e, facendolo, a trasmettere certezza e garanzia ai consumatori?

Infatti, la precedente versione (2014) del Piano per la promozione straordinaria recitava (pag 12): “Con il Ministero dell’Agricoltura, si introdurrà un marchio internazionale ‘Italian original’ (nome provvisorio) che corrisponde alle nostre DOC/DOP e IGP/IGT”. Insomma, il nome provvisorio era meglio. Più preciso. Più semplice. Più chiaro e inequivocabile. Unito a una soluzione grafica davvero distintiva e ben strutturata avrebbe potuto fare un ottimo lavoro: le parole “originale italiano” per descrivere. L’immagine per identificare.

Invece anche quella bandierina lì, che sembra appesa con quattro mollette a un filo per i panni teso storto, fatica a trovare un suo perché. Da una parte, di solito le bandiere sventolano e garriscono orgogliosamente, e non pendono. Dall’altra, di bandierine italiane variamente disegnate sono pieni proprio i prodotti italian sounding.

Eppure, a dar retta al video di presentazione (tra qualche riga trovate il link) la floscia bandierina appesa (o, chissà?, morsicata) dovrebbe evocare mille cose: territorio, paesaggio rurale, pesca, biodiversità, vino, tradizione, gusto, materie prime e altro ancora. Quelle tre ondine in alto, nel caso non l’aveste capito, sono “il segno del cambiamento, dell’espansione e della crescita”. E pazienza se non si è mai visto nulla che cambi, cresca o si espanda in quella forma o con quell’andamento. E neanche nulla di territoriale, agricolo, originale o appetitoso.

Oggi, tra video e foto, vino e cibo vengono presentati in modo magnifico, tanto che si arriva a parlare di “foodporn”. Guardatevi, per esempio, questo portfolio (bastacliccare sulle immagini). O guardatevi l’epica campagna Lurpack. Avete visto? Bene, adesso guardate il video che presenta l’extraordinary italian taste e ditemi se quella lì è la maniera di mostrare un raviolo, una pizza o un pasticcino, e di parlare di promozione dell’eccellenza e della sapienza alimentare italiane.

È anche difficile lavorare con le istituzioni: troppi referenti, tempi stretti. Le molte criticità del risultato possono derivare dalla complessità del processo o da cento altri motivi che non necessariamente riguardano le competenze dei professionisti coinvolti (non so di chi si tratta: in rete non ce n’è traccia). Magari, tra diverse soluzioni presentate, non è stata scelta la più efficace. Magari questa soluzione è differente dall’idea originale ed è frutto di qualche compromesso.

So bene che è difficile mettere tutto a sistema, ed è difficilissimo mettere tutti d’accordo. So perfettamente che non si può chiedere a chi fa un altro mestiere e si occupa di affari esteri e politiche agricole, o di economia, o di piccole e medie imprese di stare a lambiccarsi sulla qualità grafica, o sulle parole.

Ma, accidenti, un marchio non è una sovrastruttura accessoria e intercambiabile, e in comunicazione la forma (cioè il modo in cui viene espresso un contenuto) determina la percezione, la comprensione, la credibilità del contenuto medesimo. E, con questo, il suo successo presso il pubblico. Le imprese private lo sanno perfettamente e sullo studio dei marchi investono tempo, energie, attenzione, pensiero strategico.

Qui sono in ballo un investimento – finalmente! – importante, e una sfida durissima da vincere: quella contro le “vere” (e non le false) imitazioni. Cominciare con un “vero” marchio, che dica chiaramente e coraggiosamente garanzia e originalità, che non sembri a sua volta italian sounding e che abbia altissima riconoscibilità rispetto ai 60 miliardi di roba contraffatta e imbandierata che viaggia nel mercato, non sarebbe male.

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