La sfida del futuro, aziende verso la sostenibilità sociale ed ambientale

La sfida del futuro, aziende verso la sostenibilità sociale ed ambientale

La sfida del futuro, aziende verso la sostenibilità sociale ed ambientale

Posted on 14 Giugno 2016 by in Senza categoria with Commenti disabilitati su La sfida del futuro, aziende verso la sostenibilità sociale ed ambientale

ROMA – E’ possibile coniugare lo sviluppo aziendale e la possibilità di fare impresa a livelli sempre più competitivi, con la necessità di adottare politiche sostenibili in materie ambientali e sociali? La sfida è di quelle importanti. Anche perché dando uno sguardo a quello che succede negli altri Paesi, emerge con profonda chiarezza la necessità di adeguare le agende delle imprese italiane con quelle internazionali, già sensibilmente vicine ai temi della sostenibilità. Per questo, il World Business Council for Sustainable Development ha annunciato con soddisfazione che CSR Manager Network si è unito al Global Network di WBCSD, costituito da oltre sessanta organizzazioni di imprese nel mondo, unite nell’impegno per promuovere nei rispettivi paesi lo sviluppo sostenibile presso la business leadership.

BUONE PRATICHE A CONFRONTO

CSR Manager Network è la principale associazione italiana che raggruppa il maggior numero di professionisti della sostenibilità e nel nostro Paese ricopre un ruolo determinate nell’indirizzare i manager verso politiche sostenibili, rappresentando oltre cento aziende.

«Siamo orgogliosi di rappresentare il WBCSD in Italia – dice Fulvio Rossi, Presidente di CSR Manager Network e CSR Manager di Terna – . E’ un’occasione importante sotto due aspetti. A noi offre la possibilità di poter tradurre in Italia le buone pratiche in tema di sostenibilità presenti nelle grandi aziende internazionali. Allo stesso tempo, abbiamo l’opportunità di poter valorizzare anche le esperienze adottate dalle imprese italiane, non sempre conosciute e riconosciute a livello internazionale».

LE DIRETTIVE EUROPEE

Per garantire un’adeguata sostenibilità sociale ed ambientale, le «aziende sono chiamate a fare leva sulla loro capacità di interagire in modo positivo con gli stakeholder, i dipendenti, i fornitori, le istituzioni, il mondo accademico e del no profit. Se l’azienda – prosegue Rossi – è in grado di rimodulare le attività produttive anche in funzione dei propri dipendenti, per esempio, favorendo la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro, l’impresa registrerà sicuramente risultati importanti».


Le aziende, dunque, hanno la libertà di scegliere le politiche sostenibili a loro più congeniali, confidando anche sulle scelte del Governo più inclini a sostenere le loro scelte sociali ed ambientali. «A riguardo – evidenzia Rossi – il nuovo Codice degli appalti, la cui direttiva europea è stata recepita di recente dalla Legge delega, mette in risalto gli aspetti ambientali e sociali nelle diverse fasi del processo di acquisto da parte della Pubblica Amministrazione. Così come troviamo interessante anche l’altra direttiva europea di prossima ricezione relativa all’informazione non finanziaria delle aziende, legata alla trasparenza sui temi sociali ed ambientali delle imprese». Tra i primi impegni del CSR Manager Network, ora che si è unito al Global Network di WBCSD, quello di organizzare «entro la fine dell’anno un convegno – conclude Rossi – per condividere le esperienze più interessanti tra le imprese internazionali ed italiane in materia di sostenibilità, al fine di diffondere le buone pratiche e contribuire a sviluppare eccellenze in questo settore».

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Ecco come la Borsa drena ricchezza alle imprese (usando anche il Qe)

Ecco come la Borsa drena ricchezza alle imprese (usando anche il Qe)

Posted on 10 Giugno 2016 by in Senza categoria with Commenti disabilitati su Ecco come la Borsa drena ricchezza alle imprese (usando anche il Qe)

Insegna la teoria che i mercati finanziari servano per far affluire risorse alle imprese. Dimenticate la teoria: la realtà dei fatti è ormai l’esatto contrario. E il nuovo programma della Bce di acquisto di corporate bond rischia di favorire il paradosso. I mercati finanziari, soprattutto quelli azionari, succhiano infatti dalle imprese più risorse di quante non ne elargiscano. Accade negli Stati Uniti, dove tra dividendi pagati e riacquisti di azioni proprie (buyback) le aziende quotate a Wall Street hanno elargito agli investitori circa mille miliardi di dollari nel 2015. Accade in Italia dove, nel 2015 secondo i dati della Consob, le imprese hanno raccolto in Borsa 4,6 miliardi ma hanno restituito (principalmente tramite dividendi) 20,8 miliardi.

LA BORSA ITALIANA DRENA RISORSE ALLE IMPRESE
Saldo fra risorse raccolte e restituite agli azionisti di società quotate italiane, in miliardi euro. (Fonte: Consob; Thomson Reuters)

E ora che la Bce ha iniziato a comprare obbligazioni aziendali, il fenomeno potrebbe aumentare: molte imprese (soprattutto americane) dichiarano infatti esplicitamente di voler sfruttare l’attuale programma di Mario Draghi con il solo scopo di indebitarsi per ricomprare azioni proprie in Borsa. Cioè per regalare il denaro preso in prestito sui mercati obbligazionari ai propri azionisti. Alla finanza. A Wall Street.

Nell’era dei tassi a zero e della liquidità abbondante, questo è forse il maggiore paradosso: il denaro continua a circolare nella finanza mentre l’economia reale annaspa. Non bisogna dunque stupirsi se gli investimenti (quelli veri, in ricerca, in sviluppo, in idee imprenditoriali) non decollino. Secondo i dati dell’Ocse, nell’area euro dal 2008 gli investimenti sono diminuiti di quasi il 15%. Nell’intera Europa, stima Rbs, il calo è del 20%. Negli Stati Uniti il Pil è aumentato del 10% circa, ma gli investimenti solo del 5%. I motivi sono tanti (l’incertezza in primo luogo), ma uno è il più paradossale di tutti: chi ha i soldi, non li usa. Chi li raccoglie dai mercati finanziari, tende a restituirli (con gli interessi) ai mercati stessi.

Borsa predatrice

I dati parlano chiaro. In Italia il mercato borsistico riesce a drenare dalle imprese quelle poche risorse di cui dispongono. Secondo i dati elaborati dalla Consob, è da almeno il 2007 che la Borsa prende dalle aziende più soldi di quanti non ne elargisca: negli ultimi 9 anni le imprese quotate a Milano hanno infatti raccolto a Piazza Affari meno di 80 miliardi di euro mediante aumenti di capitale e Ipo, ma hanno restituito circa 190 miliardi attraverso dividendi, buyback (pochi in realtà) e Opa. Il saldo netto è di oltre 100 miliardi: soldi che il mercato finanziario italiano ha “succhiato” dalle imprese. Considerando che gli investitori che operano a Piazza Affari sono principalmente internazionali, si tratta di soldi usciti dalle aziende nostrane per affluire nei forzieri di fondi o banche estere. E in questi anni di recessione, con gli investimenti colati a picco, un tale drenaggio di risorse non può non far riflettere.

Ovviamente questi numeri nulla sono rispetto a quelli statunitensi. I dividendi pagati agli azionisti e i buyback (cioè il riacquisto di azioni proprie) sono aumentati a Wall Street dai 507 miliardi del 2005 ai circa mille del 2015. Il fenomeno non è nuovo: secondo le stime di William Lazonick della Harvard Business Review, le aziende quotate a Wall Street tra il 2003 e il 2012 hanno usato il 54% degli utili per ricomprare le proprie azioni in Borsa e il 37% per pagare dividendi. Mediamente il 91% dei profitti realizzati dalle imprese americane sono quindi tornati nel magma della finanza: questo significa che non sono stati usati per investire in ricerca, in sviluppo, in occupazione. Insomma: in benessere collettivo.

Obbligazioni sterili

Ma l’aspetto ancora più allarmante è che molte imprese negli Stati Uniti (e non solo) da tempo hanno iniziato a indebitarsi per comprare con i soldi presi in prestito azioni proprie in Borsa. L’obiettivo è di “pompare” al rialzo il proprio titolo a Wall Street: in questo modo si gratificano gli investitori e – dulcis in fundo – gli stessi bonus dei top-manager. Il fenomeno dura da anni, ma ora che in Europa la Bce ha iniziato a comprare obbligazioni aziendali (anche se emesse da gruppi esteri purché denominate in euro) il gioco è ripreso alla grande. Calcola Fitch che quest’anno (fino a fine maggio) le imprese statunitensi abbiano emesso 32 miliardi di obbligazioni in Europa denominate in euro (dunque acquistabili dalla Bce): si tratta in soli 5 mesi di oltre la metà di quanto fatto nell’intero 2015. Ebbene: spulciando i prospetti di questi bond, Fitch ha scoperto che un quarto delle aziende che ha emesso obbligazioni dichiara esplicitamente di voler usare i soldi raccolti in Europa per acquistare azioni proprie a Wall Street.

In Europa il fenomeno è diverso, ma non meno assurdo. Patrick Artus, economista di Natixis, ha fatto un calcolo che riguarda le grandi aziende francesi. Ebbene: molte di loro si indebitano solo per aumentare la liquidità in bilancio. Il denaro liquido che si trova oggi nei bilanci delle imprese francesi ammonta infatti al 24% del Pil, contro il 12% del 2007. È come se una persona andasse in banca a prendere un mutuo, per poi depositare i soldi sul conto corrente e non farci nulla.

Economia reale in secca

Bene inteso: non c’è nulla di male nel redistribuire agli azionisti i soldi in eccesso. Anzi. Nell’era dei tassi bassi e dell’abbondante liquidità, è anche finanziariamente razionale per le aziende indebitarsi per pagare dividendi. Ma se si guarda il fenomeno dall’alto, non nel micromondo dei singoli bilanci, è evidente che si tratti di un’assurdità: i mercati finanziari dovrebbero servire per far arrivare risorse alle imprese, soprattutto in tempi di crisi, non per succhiarle via dai loro bilanci. Tutto questo crea paradossi.

Attraverso la American Energy Innovation Council – denunciava tempo fa William Lazonick di Harvard – i top manager di gruppi come Microsoft e Ge anni fa hanno per esempio spinto il Governo Usa a triplicare gli investimenti pubblici a favore dell’energia alternativa, portandoli a 16 miliardi l’anno. Peccato però che nell’ultimo decennio solo Microsoft e Ge abbiano insieme speso ogni anno lo stesso ammontare di dollari per ricomprare azioni proprie in Borsa. E che dire delle case farmaceutiche? Negli Usa le medicine costano molto più che all’estero perché – dicono le stesse case farmaceutiche – in questo modo possono investire in ricerca e sviluppo. Peccato però che Pfizer dal 2003 al 2012 abbia usato il 71% dei propri utili per effettuare buyback di azioni proprie e il 75% per pagare dividendi. Mentre la gente paga per la ricerca, insomma, le case farmaceutiche gratificano Wall Street. E, con essa, gli stipendi dei top manager. La speranza è che la nuova manovra della Bce, seppur condivisibile, non finisca per alimentare eccessivamente questo circolo vizioso.

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PADOAN AL FESTIVAL DELL’ECONOMIA DI TRENTO:”IL JOBS ACT HA RESO MIGLIORE IL MERCATO DEL LAVORO”

PADOAN AL FESTIVAL DELL’ECONOMIA DI TRENTO:”IL JOBS ACT HA RESO MIGLIORE IL MERCATO DEL LAVORO”

Posted on 9 Giugno 2016 by in Uncategorized with Commenti disabilitati su PADOAN AL FESTIVAL DELL’ECONOMIA DI TRENTO:”IL JOBS ACT HA RESO MIGLIORE IL MERCATO DEL LAVORO”

Interventi istituzionali al Festival dell’Economia, in corso dal 2 al 5 giugno a Trento. Nel corso di un dibattito sulla necessità per l’Ue di dotarsi di un ministro delle Finanze europeo sono intervenuti il ministro delle Finanze Vincenzo Visco e il governatore della Banca di Francia Villeroy De Galhau, successivamente ha preso la parola anche il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.   Padoan ha sottolineato che in Italia il jobs act ha reso “il mercato del lavoro radicalmente migliore e già si vede” ed e’ stato “un grimaldello per la fiducia” perché ha dimostrato che “un paese ritenuto incapace di far le riforme le fa”. Sulla riduzione delle tasse ha aggiunto che “i tagli alle imprese sono già previsti per il 2017. Se ci saranno ulteriori spazi per tagliare le tasse alle famiglie lo faremo. Ma ci sono vincoli di bilancio molto stetti. Vedremo… Il taglio dell’Ires? Sara’ confermato”.   Secondo Padoan “la strategia del governo, da quando è nato, si basa su riforme strutturali, finanza della crescita e tagli di tasse. Ne abbiamo tagliate diverse in misura abbondante: vedremo di capire, in base ai tagli già effettuati cosa può essere ancora tagliato”. Grazie alle riforme “mai viste” che il governo ha messo in campo in due anni sul sistema bancario e grazie a “crescita e ripresa degli investimenti in un orizzonte di due anni, che e’ il periodo normale di gestione delle sofferenze, il sistema tornerà stabile”, quando “saranno portate a termine anche fusioni, acquisizioni e ricapitalizzazioni”.   In precedenza sia  Villeroy De Galhau che Vincenzo Visco si erano detti molto preoccupati dalla possibilità che il referendum sulla Brexit renda l’uscita della Gran Bretagna dall’Europa una realtà.   Secondo Visco se al referendum nel Regno Unito vincesse l’ipotesi di uscita di Londra dall’Ue “anche tra i paesi dell’eurozona ci potrebbero essere tentazioni di fuoriuscita, che verrebbero giustificate con la possibilità di regolare i tassi di cambio”. Se vincerà  la Brexit, ha proseguito Visco, “ci saranno delle forze che cercheranno di seguire l’esempio della Gran Bretagna, che prendono vita da questi fenomeni e che poi portano tumulti sui mercati finanziari: noi dovremmo contrastare queste forze”.   Il governatore della Banca di Francia, Francois Villeroy De Galhau ha rimarcato che “In caso di fuoriuscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea ci saranno tumulti sui mercati finanziari e sui tassi d’interesse bancari e certamente servirà un intervento delle autorità finanziarie europee per ripristinare l’ordine”.  “Nell’ambito dell’Unione europea – ha aggiunto – la Gran Bretagna e’ importante, tra l’altro, per la city di Londra e sarebbe quindi una pessima cosa avere il Regno Unito non nel mercato comune e la city ancora legata all’Europa. Possiamo immaginare le conseguenze per quei fondi costituiti all’interno della city”.   Sulla grave crisi economica che ha colpito la Grecia Visco ha detto che “c’è ancora molto da fare prima che il problema greco si possa dire risolto”. Visco ha comunque lamentato il fatto che nel corso della crisi di Atene siano emerse da tutte le parti “pregiudizi gravi e grossolani”. La crisi del 2008 ha insegnato che “dobbiamo puntare di più alla stabilità finanziaria, al completamento del mercato e tener conto delle contingenze. Abbiamo però bisogno anche di maggiore vigilanza, intesa come supervisione dei prodotti e strutture finanziarie e delle grandi banche di investimento”.

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Artigiani digitali, made in Italy e turismo: i settori che garantiscono un posto sicuro

Artigiani digitali, made in Italy e turismo: i settori che garantiscono un posto sicuro

Posted on 6 Giugno 2016 by in Uncategorized with Commenti disabilitati su Artigiani digitali, made in Italy e turismo: i settori che garantiscono un posto sicuro

Gli esperti: bene anche costruzioni, energia pulita, automazione e salute.

Anche se la crisi sta rallentando i suoi morsi e lascia intravvedere alcune luci in fondo al tunnel, la maggior preoccupazione per il futuro resta l’occupazione.

Un lavoratore su tre ritiene che la propria professione scomparirà entro cinque anni. Oltre un terzo dei knowledge worker pensa che il proprio ruolo sia destinato a scomparire presto, mentre i due terzi sanno che il loro lavoro non sarà più lo stesso (The Way We Work, Unify-Atos). Nei lavori dell’ultimo «World Economic Forum» è stata annunciata la perdita di 5 milioni di posti di lavoro nel mondo entro il 2020: tutta colpa di robot e macchine intelligenti (Future Jobs), che si candidano nell’arco dei prossimi quattro anni a sostituire molte figure professionali. I lavoratori più a rischio di venire rimpiazzati da robot appartengono al regno del lavoro di routine. La rivoluzione dei profili professionali e delle competenze è partita e sta provocando la mutazione genetica del rapporto tra scuola, formazione e lavoro. Il paradosso è che mancheranno (già mancano) migliaia di figure professionali tra quelle più ricercate. Nella inadeguatezza dei monitoraggi, in Italia le piccole e medie imprese denunciano la difficoltà di reperimento di decine di profili industriali che arriva al 35-40% per alcune figure: manutentori, operatori macchine a controllo numerico, tecnici, progettisti, saldatori (Rapporto Excelsior). Il mismatching tra la domanda di profili delle imprese e l’offerta di persone competenti è una voragine e supera i livelli di guardia. Nel buio che ci accompagna verso il futuro, la maggioranza di centri studi ed esperti segnala che, oltre ai profili più tradizionali di industria e servizi anch’essi in cambiamento, i settori a più forte domanda su cui puntare per la ripresa sono sette. Il primo è il passaggio al mondo Web e del digitale. Mancano centinaia di migliaia di analisti, programmatori dei nuovi linguaggi, esperti informatici di alto profilo, data scientist, esperti di big data. In pole position anche artigiani digitali, maker, prototipisti, esperti di FabLab e stampa 3D. Il secondo settore è quello del Green, che comprende tutela e valorizzazione dell’ambiente, energie rinnovabili, biologico, edilizia compresa, e cibo bio. Il terzo blocco sono le quattro A su cui si è costruito il made in Italy: agroalimentare, abbigliamento e moda, arredamento e design, automazione. A seguire il quarto settore, che passa sotto il nome di Industry 4.0. Il termine vuole rappresentare la quarta rivoluzione industriale e sta trasformando le aziende manifatturiere del prossimo futuro. In particolare, il digitale industriale farà da driver per le opportunità offerte da Internet of thing e dati (permettere l’intercomunicazione tra macchine, persone e prodotti utilizzando ed elaborando in tempo reale grandi quantità di informazioni). Il quinto blocco è quello del turismo di qualità e dei beni culturali, insieme alla scoperta di nuovi giacimenti occupazionali nei territori. Il sesto comprende nuovo welfare, lavori di cura e per la salute, con una forte crescita di terapisti, geriatri, badanti, infermieri professionali. Il settimo settore è quello delle costruzioni, delle ristrutturazioni edilizie e quello delle riparazioni in genere (crescono i ripara-tutto, dagli elettrodomestici agli abiti). Tre sono le sfide per puntare su questi settori: la prima è di tipo demografico (mancherà forza lavoro al 2025 specie in Europa, Italia compresa, secondo calcoli del Bcg consulting); la seconda è la sfida formativa e dell’orientamento (bisogna riqualificare milioni di persone); la terza è il lavoro indipendente: dalla generazione del posto fisso passeremo alla Free lance generation, ai net-worker e agli adepti dello smart working, liberi di spaziare nelle nuove praterie del lavoro, se esperti e competenti capaci di perforare il muro della genericità.

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Le Pmi all’esame dei mercati internazionali

Le Pmi all’esame dei mercati internazionali

Posted on 1 Giugno 2016 by in Uncategorized with Commenti disabilitati su Le Pmi all’esame dei mercati internazionali

Maiarelli: le aziende più piccole faticano, per questo è importante aggregarsi.

Nell’ambito del workshop “Strumenti e modelli per l’internazionalizzazione delle Piccole e Medie Imprese”, tenutosi presso la sede di Unindustria di Ferrara, sono emersi argomenti e dati interessanti. Riccardo Maiarelli, Presidente Unindustria Ferrara, ha aperto i lavori snocciolando alcuni dati: «su 4 milioni di imprese, 3milioni e 961 mila hanno tra 1 e 9 addetti. La ripresa stenta a mostrare i suoi effetti, e come Unindustria non siamo soddisfatti. Le aziende grandi e medie hanno più strumenti per internazionalizzarsi, ma quelle più piccole faticano». Proprio per andare incontro alle realtà più piccole, Maiarelli afferma che «come Unindustria stiamo aggregando sistemi di rappresentanza ferrarese con le province di Modena e Bologna. Dal primo gennaio 2017 sarà costituita Confindustria Emilia, ed è una straordinaria opportunità per le nostre imprese».

Tra i temi che Unindustria sta affrontando, c’è «industry 4.0, che vede l’utilizzo delle tecnologie digitali per rivoluzionare il sistema produttivo». Tra le questioni affrontate da Paolo Govoni, presidente Camera di Commercio, la crisi che perdura nonostante qualche segnale positivo, la scarsità di risorse e il riassetto istituzionale che ci sarà in Emilia Romagna. «Il tema è il cambiamento, che va affrontato tutti insieme. Ognuno deve fare un passo avanti e assumersi nuove responsabilità per una crescita strutturale. L’approccio verso i mercati esteri è stato intrapreso da tempo dal territorio e sta dando risultati».

 

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Un workshop per l’internazionalizzazione delle Pmi

Un workshop per l’internazionalizzazione delle Pmi

Posted on 25 Maggio 2016 by in Senza categoria with Commenti disabilitati su Un workshop per l’internazionalizzazione delle Pmi

Elena Ruzziconi: “Le Pmi sono meno strutturate ma hanno anche loro la necessità di muoversi in questo senso”.

Si svolgerà venerdì 27 maggio a partire dalle ore 10 presso la sede Unindustria di Ferrara una giornata di incontri e interventi sul tema degli strumenti e modelli di internazionalizzazione delle Pmi, ritenuto ormai dagli addetti al lavoro “una scelta necessaria per garantire uno sviluppo economico e sostenibile sul territorio”. Un workshop questo voluto fortemente da BPER, Smartman e Consorzio Ferrara Innovazione e studiato in collaborazione e con il patrocinio di Unindustria Ferrara per rappresentare un quadro estremamente difficoltoso per le aziende di piccole e medie dimensioni ma che potrebbe garantire nuova linfa alle stesse.

“Lo scopo è quello di analizzare e portare ad una riflessione sul tema le Pmi, che sono meno strutturate per compiere questo percorso, ma che hanno anche loro la necessità di muoversi in questo senso” esordisce nella conferenza stampa di presentazione del workshop Elena Ruzziconi del CFI, la quale poi spiega che il compito del consorzio che rappresenta sarà quello di “aiutare le imprese in un’ottica di accesso alle risorse e ai diversi bandi”.

Al suo fianco è presente Renzo Siboni di BPER che spiega come “per una Pmi che compie il passo dell’internazionalizzazione diventa fondamentale avere gli strumenti e le conoscenze finanziarie adatte per poter operare in mercati esteri e di questo parlerà nel corso della mattinata di venerdì Luigi Volpe di BPER Ferrara che ha seguito diversi casi di processi di internazionalizzazione di aziende più o meno grandi”.

“Il medio oriente garantisce un potenziale enorme per le imprese italiane e ad esempio l’Iran rappresenta una capacità di esportazione pari a 17 miliardi di euro per le nostre aziende” spiega Siboni, che subito dopo mette in guardia sulle “difficoltà e i tempi molto lunghi di incasso dei propri crediti, per questo c’è bisogno di un supporto degli istituti finanziari”.

Michele Mori di Smartman, unica azienda del territorio ferrarese accreditata al Ministero dello Sviluppo Economico per erogare servizi di Temporary Export Manager, ricorda in conclusione “l’attività di consulenza manageriale svolta dal nostro laboratorio per le Pmi in un’ottica di sviluppo delle stesse in termini di nuovi mercati essenziali per la crescita delle aziende ma anche del territorio”.

La giornata di venerdì vedrà tra gli altri gli interventi di Riccardo Maiarelli (presidente Unindustria Ferrara), Paolo Govoni (presidente della Camera di Commercio) e Patrizio Bianchi (assessore regionale). La chiusura del workshop sarà dedicata all’analisi di due casi di Pmi che racconteranno il processo di internazionalizzazione che hanno svolto con il  contributo di Unindustria e Smartman.

 

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Workshop: STRUMENTI E MODELLI PER L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI

Workshop: STRUMENTI E MODELLI PER L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI

Posted on 11 Maggio 2016 by in Uncategorized with Commenti disabilitati su Workshop: STRUMENTI E MODELLI PER L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI

Smartman Consulenza e Formazione manageriale, BPER Banca e Consorzio Ferrara Innovazione, in collaborazione e con il patrocinio di Unindustria Ferrara, organizzano il workshop gratuito

STRUMENTI E MODELLI PER L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DELLE PMI

che si terrà venerdì 27 maggio 2016, ore 10 – 13
presso Unindustria Ferrara (Via Montebello 33 – Ferrara)

Gli argomenti che saranno affrontati sono i seguenti: processi di internazionalizzazione delle imprese, analisi e modelli per l’accesso al credito e soluzioni finanziarie per l’export, bandi di finanziamento e supporto territoriale alle imprese.

Il workshop ha l’obiettivo di sensibilizzare le imprese del territorio circa l’importanza di un approccio sistematico alla strategia d’internazionalizzazione, fornendo non soltanto modelli concettuali, ma anche alcuni strumenti concreti per il successo delle imprese che hanno intrapreso questo percorso. Verranno, infine, presentati alcuni casi aziendali di successo.

 

Il workshop sarà moderato da Cristiano Bendin, Capo Redattore del Resto del Carlino.

 

SI RIPORTA DI SEGUITO IL PROGRAMMA DELLA GIORNATA:

Ore 9.30  –   Registrazione dei partecipanti e welcome coffee

Ore 10.00 – Apertura dei lavori e saluto di benvenuto
Riccardo Maiarelli – Presidente Unindustria Ferrara

Ore 10.15 – La sfida dell’internazionalizzazione per le imprese del territorio
Paolo Govoni – Presidente Camera di Commercio Ferrara
 
Ore 10.45 – Strumenti di supporto per le PMI sul territorio

Caterina Brancaleoni -Presidente S.I.PRO – AGENZIA PROVINCIALE PER LO
SVILUPPO – Ferrara

Ore 11.15 – Strumenti finanziari per progetti di internazionalizzazione
Luigi Volpe – BPER Ferrara – Ufficio Internazionalizzazione
 
Ore 11.45 – Competizione globale, politiche e relazioni industriali per lo sviluppo
dell’economia regionale

Patrizio Bianchi – Assessore al coordinamento delle politiche europee allo
sviluppo, scuola, formazione professionale, università, ricerca e lavoro Regione
Emilia – Romagna

Ore 12.15 – Case histories

Ore 12.45– Dibattito e termine dei lavori.

 

In chiusura dell’incontro sarà offerto un buffet.

 

Le imprese interessate  a partecipare sono invitate a compilare la scheda di partecipazione scaricabile al seguente link: https://www.smart-man.it/wp-content/uploads/2016/05/Scheda-di-adesione-UNINDUSTRIA.pdf, e ad inviarla alla Segreteria Generale di Unindustria Ferrara (tel. 0532 205122 – fax 0532 204740 – mail info@unindustria.fe.it), preferibilmente entro martedì 24 maggio 2016.

IL RISK MANAGEMENT E LA NORMA ISO 31000

IL RISK MANAGEMENT E LA NORMA ISO 31000

Posted on 10 Maggio 2016 by in Senza categoria with Commenti disabilitati su IL RISK MANAGEMENT E LA NORMA ISO 31000

SI E’ SVOLTO OGGI, MARTEDI’ 10 MAGGIO, PRESSO IL CONSORZIO FERRARA INNOVAZIONE A FERRARA, IL MODULO DI FORMAZIONE: “IL RISK MANAGEMENT E LA NORMA ISO 31000”, ORGANIZZATO DA SMARTMAN S.R.L. IN COLLABORAZIONE CON CERTIQUALITY .

La norma ISO 31000 fornisce un approccio per la gestione dei rischi, aspetto sempre più importante per le aziende, soprattutto in un momento in cui la concorrenza è resa più forte dalla globalizzazione. Infatti le nuove edizioni delle norme ISO sono orientate all’applicazione della gestione del rischio come base dei sistemi. La partecipazione a questo corso permette quindi di comprendere al meglio i contenuti delle nuove edizioni sopracitate. Il corso si propone di fornire gli indirizzi per identificare i punti critici, le aree di applicazione e le risorse coinvolte per effettuare un’Analisi dei Rischi, conformemente a quanto riportato nella norma ISO 31000; verranno poi illustrati i requisiti della norma stessa.

Smartman, società di consulenza e formazione manageriale di Ferrara, organizza corsi su temi specifici riguardanti la nuova ISO 9001:2015 “Quality Management Systems”, lo standard per la gestione della qualità e l’edizione 2015 della norma ISO 14001, lo standard internazionale per la gestione delle prestazioni ambientali.

I moduli formativi vengono erogati in collaborazione con Certiquality, ente certificatore italiano.

10 Maggio 2016 – modulo di formazione: Il Risk Management e la Norma ISO 31000

10 Maggio 2016 – modulo di formazione: Il Risk Management e la Norma ISO 31000

Posted on 4 Maggio 2016 by in Marketing with Commenti disabilitati su 10 Maggio 2016 – modulo di formazione: Il Risk Management e la Norma ISO 31000

Organizzato da Smartman s.r.l. in collaborazione con Certiquality , Il corso ha una durata di 8 ore  e si terrà il giorno 10 Maggio 2016, presso il CONSORZIO FERRARA INNOVAZIONE a Ferrara Via Mons. Maverna 4.

PRESENTAZIONE DEL CORSO:

La norma ISO 31000 fornisce un approccio per la gestione dei rischi, aspetto sempre più importante per le aziende, soprattutto in un momento in cui la concorrenza è resa più forte dalla globalizzazione. Infatti le nuove edizioni delle norme ISO sono orientate all’applicazione della gestione del rischio come base dei sistemi. La partecipazione a questo corso permette quindi di comprendere al meglio i contenuti delle nuove edizioni sopracitate. Il corso si propone di fornire gli indirizzi per identificare i punti critici, le aree di applicazione e le risorse coinvolte per effettuare un’Analisi dei Rischi, conformemente a quanto riportato nella norma ISO 31000; verranno poi illustrati i requisiti della norma stessa.

A CHI E’ INDIRIZZATO:

Il corso è rivolto a titolari di PMI, managers, responsabili dei sistemi di gestione, consulenti e, più in generale, a tutti coloro che si occupano della gestione dei rischi di impresa

CONTENUTI DEL CORSO:

Il corso tratterà in maniera dettagliata i seguenti punti:

– Risk Management:
principi ed evoluzione
identificazione dei rischi
analisi dei rischi

– Esempio di applicazione di Risk Management

– Esercitazione pratica: identificazione dei rischi

– Requisiti della norma ISO 31000
struttura di riferimento
processo di gestione del rischio

– La norma ISO 31000
monitoraggio delle prestazioni
norme specifiche

– Esercitazione pratica: analisi e gestione dei rischi

ISCRIVITI AL CORSO:

La quota di partecipazione al corso è di 380 euro + IVA
Sconto del 15% riservato ai clienti Smartman

Si prega di scaricare il modulo di iscrizione dal seguente link:

https://www.smart-man.it/wp-content/uploads/2016/04/RM09-Risk-Management-10magg16.pdf


SMARTMAN S.R.L.

Smartman, società di consulenza e formazione manageriale di Ferrara, organizza corsi su temi specifici riguardanti la nuova ISO 9001:2015 “Quality Management Systems”, lo standard per la gestione della qualità e l’edizione 2015 della norma ISO 14001, lo standard internazionale per la gestione delle prestazioni ambientali.

I moduli formativi vengono erogati in collaborazione con Certiquality, ente certificatore italiano.

Il made in Italy e i 60 miliardi persi in prodotti contraffatti

Il made in Italy e i 60 miliardi persi in prodotti contraffatti

Posted on 3 Maggio 2016 by in Marketing with Commenti disabilitati su Il made in Italy e i 60 miliardi persi in prodotti contraffatti

“Il marchio contro le false imitazioni del Made in Italy”, recita un baldanzoso titolo di RaiNews. “Contro le false imitazioni” è un magnifico lapsus: dice una cosa priva di senso, e che tuttavia risulta stranamente pertinente al fatto a cui si riferisce.

Ecco di che si tratta: negli ultimi mesi, il frenetico attivismo di svariate pubbliche istituzioni ha già prodotto un paio di notevoli stravaganze turistico-promozionali. Sto parlando del discusso sito Verybello e del dissennato logo turistico Rome&you. Ma prima di entrare nel merito della nuova, recentissima stravaganza promozionale a cui si riferisce RaiNews devo segnalarvi alcuni elementi di contesto importanti, e tali da rendere questa e le precedenti stravaganze meritevoli di essere commentate.

Il turismo è strategico per la nostra economia: secondo il rapporto del World travel and tourism council 2014 produce, direttamente, indirettamente o in termini di indotto, oltre il 10 per cento del pil nazionale e riguarda più di due milioni e mezzo di posti di lavoro.

In Francia e Gran Bretagna, però, il contributo del turismo in termini di pil e occupazione risulta già oggi maggiore. E le previsioni non fanno ben sperare: abbiamo una misera previsione di crescita del contributo del 2 per cento contro un 4,2 per cento mondiale. Ecco perché bisogna darsi da fare, e in fretta.

Un altro pezzo di economia nazionale che merita un occhio di riguardo, e non solo per via di Expo, è l’industria agroalimentare, le cui esportazioni crescono a velocità doppia rispetto al totale delle esportazioni italiane: siamo a 34,3 miliardi di euro nel 2014. Esportiamo vino e dolci, e poi formaggi, pasta, passata di pomodoro, soprattutto in Europa e negli Stati Uniti. Ma anche l’estremo oriente e il Brasile sono in crescita e oggi oltre 1,2 miliardi di persone comprano almeno un prodotto agroalimentare italiano all’anno. Oltre la metà (750 milioni) compra spesso prodotti italiani.

La filiera agroalimentare vale l’8,7 per cento del nostro pil e riguarda 3,3 milioni di posti di lavoro: il 13,2 per cento degli occupati (fonte: Nomisma per Adm). Oggi le esportazioni valgono un po’ più di un quinto (20,5 per cento) della nostra intera produzione. Ma Germania (33 per cento), Francia (26 per cento) e Spagna (22 per cento) fanno meglio, anche se noi già guadagniamo di più perché i prodotti che esportiamo sono tipici, eccellenti e più cari. Proprio per questo sono anche più esposti alle imitazioni: da una parte c’è l’italian sounding (prodotti fatti altrove che si fingono italiani), dall’altra le contraffazioni vere e proprie. Uno speciale di MarkUp riporta questi, insieme a molti altri dati:

Quanto vale la “contraffazione” delle indicazioni geografiche italiane(stime in miliardi di euro):

Tipo di merce Unione europea Asia e Oceania Nord e Centro America Sudamerica Totale
Contraffatta 1 1 3 1 6
Italian sounding 21 4 24 5 54
Totale 22 5 27 6 60

Notate bene: i prodotti italian sounding valgono 60 miliardi di euro. È il doppio del valore dei prodotti italiani “veri” che esportiamo. Il fenomeno si è triplicato negli ultimi dieci anni. Negli Stati Uniti solo un prodotto su otto, tra quelli venduti come italiani, è italiano davvero.

Lo racconta Legambiente: ci sono il Parma salami del Messico, il Parmesao del Brasile, il Parmesan venduto in tutto il mondo, il Regianito argentino, il Parmesano diffuso ovunque in Sudamerica, il Parmeson cinese. Un “parmesan perfect italiano” è fatto in Australia. Ci sono anche un gorgonzola argentino, un barbera romeno e un pandoro tedesco. Questa roba, lo scrive il Sole 24Ore, costa all’Italia 300mila posti di lavoro. Dunque, anche in questo campo bisogna darsi da fare, in fretta e bene: ci vuole un piano.

Il piano, in realtà, ci sarebbe. È l’ampio, ambizioso Piano per la promozione straordinaria del made in Italy varato lo scorso febbraio: sono previsti 260 milioni di euro d’investimento che, considerando la posta in gioco e la dimensione mondiale, restano comunque pochi, ma con i tempi che corrono sono assai meglio di niente. Il piano riguarda moda, cibo e bevande, meccanica.

E vabbè, in realtà sarebbe tutto collegato: l’immagine dell’Italia all’estero, il turismo estero in Italia, l’esportazione agroalimentare, la promozione di moda, design e imprese culturali e creative, l’attrazione degli investimenti. E tutto andrebbe messo a sistema, realizzando sinergie ed economie di scala, perché tutto, in fin dei conti, rimanda al prestigio, al valore percepito e alla desiderabilità internazionale dell’Italia e di ciò che è italiano, alla nostra identità. Ma già un intervento parziale ci riempie di aspettative, no? E poi, dai, il bel video presentato a Davos farebbe sperare in interventi efficaci e di qualità.

Ed eccoci, finalmente, al punto. Secondo il documento di presentazione del Piano per la promozione straordinaria (pagina 18) una campagna contro l’italian soundingavrebbe già dovuto essere lanciata ad aprile in Canada, dove si vendono 3,6 miliardi di dollari di parmigiano, provolone e prosciutto contraffatti.

Ma oggi in rete trovo solo questa notizia. In compenso, a fine maggio 2015 viene presentato il marchio (anzi, come dicono i documenti ufficiali, il “segno distintivo unico dell’agroalimentare italiano”) che potrebbe identificare nel mondo i nostri prodotti originali. Dovrebbe essere, se adeguatamente applicato e pubblicizzato, l’arma potente, efficace e definitiva contro le vere (e non le false!) imitazioni. Eccolo qui.

Ma… ma perché c’è un blabla generico come “the extraordinary italian taste”, che ricorda altri generici blabla come Magic Italy ed è talmente generico da sembrare a sua volta italian sounding? E perché mancano tutte, ma proprio tutte le parole-chiave: originale, vero, autentico, inimitabile, garantito, fatto in Italia? Ce ne fosse almeno una, accidenti.

E poi “gusto”, parlando di cibo e vino, è una parola ambigua perché fa riferimento alla percezione soggettiva e non a qualità oggettive: “gusto italiano” è proprio quello che hanno i prodotti italian sounding.

E perché rinunciare non solo a scrivere parole qualificanti, che dicono quel che devono dire, ma anche a scriverle in italiano (lo ripeto ancora una volta: è la quarta lingua più studiata al mondo)? Tra l’altro i termini “originale, autentico, garantito italiano” risultano facilmente comprensibili (per controllare bastano due clic con Google translator) non solo a tutte le persone che parlano inglese e che dunque capiscono la scritta attuale, ma anche a quelle che parlano francese, spagnolo, tedesco, romeno, lettone e lituano, portoghese…

E ancora: i prodotti italian sounding usano, storpiandole, una quantità di parole italiane (su una confezione romena di Prima Pasta le penne diventano “pene”). Perché mai i prodotti italiani “veri” dovrebbero risultare più credibili vantando la loro italianità in inglese?

E poi come la mettiamo con i siti italiantaste.it e italiantaste.net, che già esistono e si troveranno con un bel po’ di pubblicità ministeriale gratuita? Per inciso: mentre scrivo, italiantaste.com è in vendita per “soli” 20mila euro.

Infine: che cosa mai sta distinguendo questo marchio distintivo, se si limita ad affermare che il gusto italiano è straordinario (e su questo sono d’accordo anche gli imitatori che, infatti, imitano e replicano), ma non prova neanche a discriminare tra prodotto falso e prodotto autentico e originale, e, facendolo, a trasmettere certezza e garanzia ai consumatori?

Infatti, la precedente versione (2014) del Piano per la promozione straordinaria recitava (pag 12): “Con il Ministero dell’Agricoltura, si introdurrà un marchio internazionale ‘Italian original’ (nome provvisorio) che corrisponde alle nostre DOC/DOP e IGP/IGT”. Insomma, il nome provvisorio era meglio. Più preciso. Più semplice. Più chiaro e inequivocabile. Unito a una soluzione grafica davvero distintiva e ben strutturata avrebbe potuto fare un ottimo lavoro: le parole “originale italiano” per descrivere. L’immagine per identificare.

Invece anche quella bandierina lì, che sembra appesa con quattro mollette a un filo per i panni teso storto, fatica a trovare un suo perché. Da una parte, di solito le bandiere sventolano e garriscono orgogliosamente, e non pendono. Dall’altra, di bandierine italiane variamente disegnate sono pieni proprio i prodotti italian sounding.

Eppure, a dar retta al video di presentazione (tra qualche riga trovate il link) la floscia bandierina appesa (o, chissà?, morsicata) dovrebbe evocare mille cose: territorio, paesaggio rurale, pesca, biodiversità, vino, tradizione, gusto, materie prime e altro ancora. Quelle tre ondine in alto, nel caso non l’aveste capito, sono “il segno del cambiamento, dell’espansione e della crescita”. E pazienza se non si è mai visto nulla che cambi, cresca o si espanda in quella forma o con quell’andamento. E neanche nulla di territoriale, agricolo, originale o appetitoso.

Oggi, tra video e foto, vino e cibo vengono presentati in modo magnifico, tanto che si arriva a parlare di “foodporn”. Guardatevi, per esempio, questo portfolio (bastacliccare sulle immagini). O guardatevi l’epica campagna Lurpack. Avete visto? Bene, adesso guardate il video che presenta l’extraordinary italian taste e ditemi se quella lì è la maniera di mostrare un raviolo, una pizza o un pasticcino, e di parlare di promozione dell’eccellenza e della sapienza alimentare italiane.

È anche difficile lavorare con le istituzioni: troppi referenti, tempi stretti. Le molte criticità del risultato possono derivare dalla complessità del processo o da cento altri motivi che non necessariamente riguardano le competenze dei professionisti coinvolti (non so di chi si tratta: in rete non ce n’è traccia). Magari, tra diverse soluzioni presentate, non è stata scelta la più efficace. Magari questa soluzione è differente dall’idea originale ed è frutto di qualche compromesso.

So bene che è difficile mettere tutto a sistema, ed è difficilissimo mettere tutti d’accordo. So perfettamente che non si può chiedere a chi fa un altro mestiere e si occupa di affari esteri e politiche agricole, o di economia, o di piccole e medie imprese di stare a lambiccarsi sulla qualità grafica, o sulle parole.

Ma, accidenti, un marchio non è una sovrastruttura accessoria e intercambiabile, e in comunicazione la forma (cioè il modo in cui viene espresso un contenuto) determina la percezione, la comprensione, la credibilità del contenuto medesimo. E, con questo, il suo successo presso il pubblico. Le imprese private lo sanno perfettamente e sullo studio dei marchi investono tempo, energie, attenzione, pensiero strategico.

Qui sono in ballo un investimento – finalmente! – importante, e una sfida durissima da vincere: quella contro le “vere” (e non le false) imitazioni. Cominciare con un “vero” marchio, che dica chiaramente e coraggiosamente garanzia e originalità, che non sembri a sua volta italian sounding e che abbia altissima riconoscibilità rispetto ai 60 miliardi di roba contraffatta e imbandierata che viaggia nel mercato, non sarebbe male.

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